mercoledì 23 settembre 2009

Lo stile è una questione di fede


Il Corriere della Sera on line di oggi (23 settembre 2009) riporta la notizia che l'"Iran ha bandito i jeans con il nome di Allah", precisando che "Chi ha provato a importarli è stato arrestato con l’accusa di blasfemia". Il modello di jeans in questione riportava il nome del profeta su di una tasca posteriore, all'altezza delle natiche per dirla tutta. Apriti cielo! (espressione che va bene per ogni credo). Il mondo religioso iraniano è subito insorto di fronte alla fashion dissacrazione del nome di dio. Un'insurrezione che ha messo d'accordo sciiti e sunniti, popolazioni che convivono nel territorio con non poche difficoltà. Calzoni messi la bando, indumento vergognoso ed offensivo, dunque, ma anche origine di una reazione tale da unificare - almeno per concetto - fazioni opposte e discordanti. Un miracolo, avranno urlato all'interno dei laboratori stilistici cinesi in cui il jeans è progettato e realizzato. Macchè! Quelli di religione non ne vogliono neppure sentir parlare. E reprimono "diritti" ogni replica. Una situazione simile è accaduta poco più di 30'anni fa in Occidente, in Italia, per la precisione. Correva l'anno del Signore 1971, quando in Piemonte nacque il primo marchio italiano di jeans, Jesus Jeans (prodotto dal Maglificio Calzificio Torinese - MCT). Il nome la dice tutta. Anche in quel caso le polemiche non mancarono. L'Italia, si sa, è un paese mooooolto cattolico, spesso bacchettone, che mal digerisce le provocazioni (scherza coi fanti, ma lascia stare i santi), con una morale di matrice marcatamente religiosa e, specie in quegli anni, colmo di gente che c'andava con i piedi di "piombo". La goccia che fece traboccare il vaso fu la campagna pubblicitaria, ideata dall'enfant prodige Oliviero Toscani, in cui campeggiava in primo piano un sedere ben tornito ed appetitoso che invitava la gente a seguirlo. "Chi mi ama mi segua", recitava, infatti, il biblico slogan. Un invito per "chiavata", piuttosto che per chiamata. Una pubblicità fantastica, che colpisce il pubblico senza lasciare scampo, che fa parlare anche chi un paio di jeans non li ha mai indossati, è ancora di più, fa parlare anche chi non ti aspetti proferisca parola. Un messaggio potente e penetrante, una di quelle cose che non dimentichi facilmente. Certo, c'è chi afferma che la migliore pubblicità è quella che faresti leggere o vedere alla tua famiglia senza vergognarti del contenuto ed immagini, tuttavia questo va bene solo in un mondo perfettamente corretto, sensibile, dai connotati morali ben delineati, identificabili e soprattutto stabili... almeno finchè durano. Ma questa è un'altra storia. Sta di fatto che il paragone tra le due circostanze ci sta tutto, ma si tratta di un confronto solo ideale. Lungi da me voler assimilare i due mondi e le due epoche. Totalmente differenti, ma la storia mi fa gola. L'Iran di oggi bandisce e condanna, l'Italia di trent'anni fa polemizza e si scandalizza. Sempre di dio si sta parlando! Sebbene la vicenda non ebbe nel Bel Paese le medesime proprietà uninifatorie che ha avuto nella nazione degli ayatolla - la critica e l'estabilisment italico mostrarono posizioni opposte e discordanti tra contrari alla pubblicazione dell'immagine pubblicitaria e fautori della libertà di espressione - la fattispecie evidenzia delle discrasie reazionarie da prendere in seria considerazione. Wow, sto trascendendo. Restando con i piedi per terra, mi chiedo: è davvero necessario condannare un jeans? E' possibile che imprimere il nome di Gesù, Allah, Buddah o Visnù su di un pantalone sia da considerarsi manifestazione di una libertà sacrosanta ed inviolabile come quella di espressione? Ci sono limiti al fanatismo? O si vuol solo fare scalpore, infrangere le regole, indispettire, innervosire, fomentare polemiche e censure, irritare, irridere e fare soldi. Be', d'altronde non biasimo nessuno, sapete come sarebbe difficile badare o quantomeno tenere in dovuta considerazione le opinioni ed i pareri di tutti per evitare di urtare la sensibilità di chicchessia? Un'impresa che richiederebbe doti taumaturgiche, divine, e di divino nell'uomo ce n'è tanto quanto di sangue nelle rape.

martedì 22 settembre 2009

Quelli che... si fanno prendere per culo.



L'ignoranza è una brutta bestia, specie se ostentata, teletrasmessa, seguitissima e vestita Dolce & Gabbana.
Doemnica 20 settembre scorso, i Muse , celebre band musicale inglese, si sono esibiti nello show televisivo "Quelli che il calcio" condotto da Simona Ventura. Ma che ve lo dico a fare: tutti, in Italia, conscono la trasmissione... un po' meno i Muse. La band, infatti, davanti al divieto della produzione di esibirsi live, ha replicato con un tiro mancino (concedetemi l'espressione a tema): si sono presentati in scena invertendosi le parti. Il cantante si è sistemato dietro la batteria, il bassista alla chitarra ed il chitarrista al basso. Nessuno dei presenti se ne è accorto: né la brillante e sagace Simona, né i dottissimi ed arguti autori, né il gaudente ed applaudente pubblico presente in studio. Un bluff catodico nel programma di punta della rete pubblica numero 2. Ma la cosa non è rimasta confinata alla peformance, no. La Ventura, facendo sfoggio di un inglese cluadicante, ha anche intervistato il cantante/batterista dando seguito ad una farsa che così ha raggiunto livelli niente male. Tra le risa degli altri componenti del gruppo, quello le rispondeva con fare misto tra il faceto e l'irriverente, recitando la parte in maniera magistrale. Cosa che, se si guarda il video della loro esibizione, è facile notare durante tutta l'esecuzione del brano. Le braccia del "batterista" truffaldino protese verso il pubblico mentre in sottofondo andava un travolgente ritmo di grancassa, rullante e tom, le mani del chitarrista imbroglione che parevano muoversi avulse al brano, ed il sorriso beffardo del cantante impostore maximo che stentava a mostrare serietà nel recitare quella parte. Ora, non conosco la ragione per la quale non si è permesso ai Muse di esibirsi dal vivo, ma so riconoscere perfettamente una bella figura di merda. Resto in attesa di repliche per domeniche, La Ventura nazionale non resterà a guardare.

domenica 20 settembre 2009

Fattore telegenia: la stalla è aperta

Qualche giorno fa, mi è capitato di riguardare la prima puntata di X Factor, reality talent scout alla sua terza edizione. Se si fa eccezione per la sostituzione della strapresente Simona Ventura con la cupa Claudia Mori, nota più per essere la compagna di Adriano Celentano che altro, il programma non appare aver subito grandi cambimenti. Sembra che la trasmissione segua lo stesso canovaccio delle telenovelle: quando lo share è in fase discendente, si inserisce un nuovo personaggio integrandolo nella stessa, identica e patetica storia, e si spera in una reazione positiva dei telespettatori. La soluzione, per dirla in soldoni, dovrebbe avere lo stesso effetto che ha il viagra: far drizzare lo share. Ma torniamo alla prima puntata del reality. Proprio mentre ero lì lì per assopirmi (non sono un critico musicale, ma a mio avviso in questa edizione non odo ugole d'ore!) i miei sensi vengono destati dalla vocina flebile ed insinuante di un opinionista musicale (il Mughini del pentagramma) che, immediatamente dopo l'esibizione di una concorrente, tira in ballo il fenomeno Susan Boyle. La cosa si fa interessante. Prendo a seguire la puntata con un piglio diverso. L'opinionista è un vj di Mtv, la concorrente è Chiara Ranieri, componente della squadra di Morgan (dai 16 ai 24 anni), Susan Boyle è una partecipante della scorsa edizione di Britain's Got Talent, pari programma d'Oltremanica. Per farla breve, la Boyle è quella signora di 47 anni che, con la sua potente ed incantevole interpretazione di I Dreamed a Dream, da Les Misérables, ha incantato la nazione prima ed il mondo poi. Qualche dato tanto per dare le dimensioni del suo successo: il video della sua performance, si dice, sia il più visto di sempre su Youtube. Le ragioni del suo successo, tuttavia, non sono da ricercarsi nella sua bravura canora, quanto nel fatto che lei non è per nulla piacente. Nelle menti dei telespettatori la strana coincidenza di abilità e bruttezza ha mandato in confusione i canoni minini ed impartiti di identificazione di un successo. Ma come, così brutta e così brava? Ma sarà possibile? Fatto sta che gli autori del programma britannico hanno riconosciuto le potenzialità della fattispecie in termini mediatici costruendo un personaggio che presto è divenuto un tormentone, il che si è tradotto in un aumento vertiginoso degli ascolti. Susan Boyle è divenuta presto la beniamina del pubblico, coccolata dai giornali e programmi tv. Adorata da internet ed incoronata icona. Lei incarna il sogno di chi ce la fa. Peccato che sia arrivata solo seconda. Perchè, che che se ne dica, le leggi dello spettacolo sono impietose: è brttua e vecchia, quindi non può trionfare. Siamo talmente assuefatti ad abbinare la bellezza e la perfetta ed asciutta forma fisca con il possesso di doti artistiche che restiamo sbalorditi quando scopriamo che il brutto anatroccolo sa cantare l'opera. Il tema è stato in passato trattato alquanto sarcasticamente da Dino Risi ne "I complessi", del 1965, con l'elblematico episodio de "Il dentone", interpretato magistralemnte da Alberto Sordi.

L'episodio narra le goffe vicende di una commissione d'esame Rai durante le selezioni per la scelta del presentatore del Tg (all'epoca la Rai trasmetteva con un solo canale). I componenti della commisione, infatti, si trovano di fronte ad un vero e proprio fenomeno della natura, Guglielmo Bertone (Alberto Sordi), coltissimo ed intelliggentissimo aspirante presentatore. Tuttavia, il soggetto presenta una piccola deformazione: ha dei denti enormi e sporgenti. La commissione, guidata da Nanni Loy nella parte di se stesso, escogita mille espedienti per evitare di portare il "dentone" sugli schermi, nelle case degli italiani, ma senza successo. L'episodio si chiude con l'affermazione di un telespettatore che esprime simpatia per il dentone mentre presenta il Tg.

Susan Boyle è un fenomeno creato da noi, intesi come pubblico, in maniera indotta. Se il canto è l'arte, bene, che si giudichi quella e scompaia il riferimento foto/videogenico dai provini. Così corriamo il rischio di perderci grandi interpreti. Ma forse la tv è divenuta un'arte quanto il canto, la danza e la pittura. Se così fosse, non vedo un futuro per la giovane Chiara Ranieri, cantante dalle grandi doti vocali ma non certamente telegenica, per mole ed aspetto. Nonostante Morgan, chiamato in causa dall'allusione (a mio avviso pertinente e pungente), abbia cercato di replicare contrattaccando con argomenti farciti di onestà e trasparenza a buon mercato, i più attenti avranno colto il senso di quelle parole, e compreso la strategia sotto la scelta di quella cantante: replicare una soluzione mediatica che ha dimostrato di funzionare. Spero di cuore di sbagliarmi, ma poi leggo le dichiarazioni della neo eletta Miss Italia, Maria Perrusi: "Non so far niente, ma ho dato il massimo" (Corriere della Sera on line), e allora le mie speranze fanno presto a naufragare e chiudo chiedendomi(vi): quant'è il massimo di niente?

Sneakers (post bellum) policy


Forse non sono in molti a sapere che i noti brand d'abbigliamento sportivo Adidas e Puma nascono dalle menti di due fratelli tedeschi, rispettivamente Adolf (Adi) e Rudolf Dassler, nati ad Herzogenaurach, una piccola cittadina nei pressi di Norimberga. La storia dei due fratelli-soci d'affari ha inizio negli anni '20 nel cuore di una Germania che stava cambiando volto. I due esperti calzolai, fondano in quegli anni, una fabbrica di calzature, la Gebrüder Dassler Sportschuhfabrik, dove producono le prime scarpe da calcio con i tacchetti e le prime scarpe da atletica chiodate. Raggiungono il successo mondiale nel 1936, vestendo con le loro creazioni niente di meno che i fantastici piedi di Jesse Owens, cosa che fece andare su tutte le furie Hitler. I due fratelli, infatti, erano regolarmente iscritti al partito nazista - ci saremmo stupiti del contrario - e vestire un atleta di colore alle olimpiadi di Berlino venne inequivocalbilmente inteso come un'onta per la reputazione del Reich. Fatto sta che ai fratelli Dessler gli si perdonava tutto, erano i migliori produttori di scarpe per atleiti del mondo. Le cose filano lisce per i loro affari, sino a quel fatidico 1948, anno in cui i due fratelli si separano definitivamente. L'intera polopazione del paesino seguì la stessa sorte, scegliendo di schierarsi con l'uono o con l'altro, ed erigendo un muro invisibile che correva lungo il fiume Aurach, fiume che divide in due la città. Le cause della dura e repentina separazione sono dapprima addebitate alla differenza di vedute dei due sulla politica del Reich, poi definitivamente ascritte a beghe sentimentali. Pare che, come scrive il Corriere della Sera on line del 18-19 settembre scorso "Adi aveva una relazione con la moglie di Rudolf; o forse perché il figlio di Adi era in realtà figlio di Rudolf; di certo, le due mogli non andavano d' accordo; e anche le opinioni politiche dei due fratelli divergevano." Tresche da crucchi altolocati, insomma. Fatto sta che comunque siano andate le cose i Dessler il senso degli affari e la passione dello sport ce l'hanno nel suange. Il figlio di Adi - che si tratti della prole fedifraga o meno - è il fondatore di Arena, nota azienda specializzata nell'abbigliamento per gli sprot acquatici. La rivalità tra i due marchi, sintesi di ben più profondi dissidi, si è tradotta negli anni con sfide a suon di spot, promozioni, testimonial e trovate commerciali e tecnologiche senza precedenti. Attualmente Adidas e Puma sono al secondo e terzo posto al mondo per la produzione di abbigliamento sportivo (la prima azienda è Nike - nda). Sessant'anni separati in casa, dunque, visto che ancora oggi le sedi centrali dei due colossi dell'abbigliamento sportivo si trovano ad Herzogenaurach, città natale dei due fratelli, e tra le due non è possibile registrare nessun contatto. Oggi, questa rivalità pare dover cessare. In occasione della giornta internazionale della pace, che si terrà il 21 settembre prossimo, i rappresentanti dei due storici marchi si incontreranno sul campo di gioco per porre termine alle ostilità e riconcilarsi una volta per tutte. Si tratterà di un gesto simbolico, più che altro. I due fratelli, infatti, non ci sono più; la loro guida è stata sotituita da accaniti consigli di amministrazione che parlano francese per Puma (alla testa dell'azienda c'è infatti la Ppr, multinazionale francesce che gestisce anche Gucci) ed un folto gruppo di azionisti guida, invece, Adidas. La cosa puzza di operazione di marketing: diritti televisivi, edizioni limitate, pubblicità condivisa, enfasi mediatica carica di significato pseudo romantico, finalità inequivocabilmente positiva quindi assolutamente vendibile, irriperibilità dell'evento che si traduce in uno spasmodico aumento dei prezzi, e tanta, tanta ipocrisia dipinta sulle facce dei rispettivi manager al momento della stretta di mano davanti a milioni di persone. Chissà se i due fratelli approverebbero questa riconciliazione. Presto, comunque, ci faranno un film, potete starne certi.

P.s.
Quanto sopra descritto mi fa venire in mente una faccenda tutta locale, simile ma con le dovute proporzioni; il caso Rams. Rams è un marchio d'abbigliamento pugliese, anch'esso di proprietà di due fratelli. Un bel giorno i due litigano (le ragioni sono sicuramente differenti da quelle dei fratelli Dessler - nda) e, di conseguenza, dividono l'azienda in due differenti marchi: Bozart Rams e Rams 23 (trionfo di fantasia e creatività!). La città in cui avviene la "scissione" è Barletta, migliaia di chilometri di distanza da Herzogenaurach, e tanto, tanto differente nella reazione. Nessuna divisione della città in due fazioni, niente Guelfi e Ghibellini del tacco d'Italia. La popolazione resta compatta a pensare ai fattacci suoi mentre i due fratelli si fanno la guerra a suon di billdoard, indossaggi televisivi e sponsorizzazioni di film di bassa lega. Forse sarà perchè Barletta non è tagliata in due da un fiume come per il paesino tedesco? Mah! In questo caso, tuttavia, non penso che ci faranno un film.

giovedì 17 settembre 2009

E' "comparsa" a Bollywood













Se il cinema fosse un appartamento Hollywood sarebbe il salotto, e Bollywood ne sarebbe il giardino. Qualche giorno fa, domenica 6 settembre per la precisione, ho avuto l'onore di partecipare come comparsa all'interno di un film Bollywoodiano, una produzione indiana per intenderci. Niente cowboy né frecce, ma costumi colorati e musica. Be', per dirla tutta di musica ne ho sentita poca sul set, ma che film indiano sarebbe se non ci fosse un bel balletto con tante braccia svolazzanti e scampanio. Sì, perchè i film con produzione indiana seguono un preciso canovaccio che non può assolutamente prescindere dalla musica e dal ballo. La storia è quasi sempre la stessa: due innamorati che, per qualche assurda ragione (spesso problmi di casta), non riescono a stare assieme e lottano contro le avversità finchè il loro amore non tronfa su tutto il resto. La pellicola in questione si chiama "House Full", la casa pazza e di pazzia ne ho vista a quintali sul set. Una truope impressionante, così come le attrezzature e la velocità con cui tutto veniva sistemato e settato. Cambi si set a tempo di record, ma scene spesso girate e rigirate all'infinito per la gioia di noi comparse che grondavamo sudore su di una terrazza assolata di un hotel del Gargano. La scena era piuttosto semplice per quanto discutibile ne fosse il contenuto. Un uomo, in viaggio di nozze dall'India sul promontorio del Gargano (soluzione da premiare per la singolarità della scelta!) sta per suicidarsi lasciandosi cadere da un balcone al quinto paino di un hotel di lusso del promontorio pugliese. Una raggiante ed affabile ragazza, anch'essa indiana, gli salva la vita convindendolo a restare aggrappato alla ringhiera con non so quale espediente (non le ho visto alzare la gonna nè potuto udire alcunchè). Persuaso l'aspirante suicida a demordere dal cupo intento, lo aiuta a risalire e, una volta faccia a faccia, scatta l'abbraccio con conseguente bacio dei due. Ricordo che lei indossava un corto ed alquanto succinto vestitino di cotone tutto colorato. Lui un semplice jeans e una polo a riche rosse e blu, maglia che doveva essere davvero preziosa vista la cura e la premura con cui le assistenti di scena la trasportavano, appesa ad una gruccia, da una parte all'altra del set. Una scena topica, insomma, in cui lei incarna l'aspetto salvifico della bellezza femminile e lui tutta la stupidità maschile. La scena, tuttavia, possedeva quella giusta dose di spettacolarità e pericolosità davvero niente male. Momenti di suspance quando la controfigura stantman del protagonista si è calata giù per il balcone legato in vita da una sottile imbracatura. Sì, perchè le scene pericolse, o presunte tali, vengono sempre girate da esperti del pericolo e non da professionisti della recitazione (salvo dovute eccezioni, si intende). E la differenza è visibilisssima e risibilissima. Vedere penzolare goffamente l'attore, nelle scene in cui si giravano i primi piani, con una mano appesa alla rinchiera ed un piede poggiato su di una scala tenuta ferma da almeno quattro assistenti, ha fatto sbellicare più di una comparsa, per non parlare dei curiosi. E noi giù, su di un terrazzo, a fingere di essere dei giornalisti accorsi per riprendere l'evento. Ora, sorvolando volutamente sulla possibilità che un folto nugolo di reporter accorra praticamente in tempo reale sulla scena di un suicidio con a seguito fotografi e cameraman, che bisogno c'era di farci sbucare tutti assieme da un muro appena lì vicino? Si rasenta la pazzia. Possibile che il pubblico indiano si beva una simile storia? Sembrava di essere sul set di un film di Pozzetto con regia dei Monti Payton. Una scena, tra l'altro girata tante di quelle volte e in così tanti modi differenti che anche il più abile montatore e mago della postproduzione troverebbe impossibile conuigare con il resto al fine di realizzare quantomeno un prodotto che rasenti la logicità. Ho visto comparse (vacche al pascolo in balia di un pastore sotto effetto di funghi allucinogeni) cambiare ruolo senza alcuna ragione apparente. Da cameramen sono diventati fotografi e da giornalisti sono diventati passanti. Scaletta a puttane e plot a farsi benedire. Eppure si trattava di una produzione faraonica. Erano sul Gargano già da due settimane e prima avevano girato delle scene in India. Dopo avrebbero registrato a Londra per qualche giorno e poi di corsa a Las Vegas, tanto la difefrenza tra Pugnochiuso ed il Nevada chi l'avrebbe mai colta! Ok, la scenggiatura non è il pezzo forte di questi indiani, ma lasciatemi dire che un pastore tedesco avrebbe recitato meglio (vedi rex!). Gli attori ci mettevano una tale foga nella recitazione che esplodeva in gesti ampi e risate sguaiate senza precendeti. Ma ogni gesto trasudava passione, tanto da rendere la loro recitazione un misto di sacro e di folclore. E la riprova di ciò è racchiusa in un attore in particolare (guarda la foto in alto). Tutti lo chiamavano Cianky, anche perchè aveva un nome impronunciabile. Era una forza della natura, e trattava noi comparse come esseri umani. Spesso ci ha invitato a bere, senza badare alle riprese. Già giravano equivoche storie sul suo conto, del tipo che una sera era uscito dall'albergo e subito il regista era corso a recuperalo prima che lui potesse combinarne qualcuna delle sue. Gesta etiliche e dongiovannesche si vociferava. Il suo abbigliamento era fantastico: pareva che l'arcobaleno si fosse schianto sulla sua camicia scomponendo i colori e ricomponendoli a caso, lasciando che il cielo avvolgesse il suo abito. Purtroppo dalla foto non sono visibili le scarpe, presto fatto: basti ricordare quelle che indossava il sultano nel Film la lampada di Aladino con John Dehner del 1952 per averne almeno un'idea. Un tipo simpatico, però. A fine riprese mi ha detto che se fossi passato da Bombay o Mombay o New Dely, avrei potuto chiamarlo e lui mi avrebbe offerto da bere e magari anche ospitato a casa sua. Ed io gli ho risposto che se magari fossi passato di lì e lui non fosse stato impegnato in qualche altra stramba produzione (di film ne ha girati ben 82!), l'avrei sicuramente chiamato.

sabato 12 settembre 2009

Tempi moderni

66a Mostra del Cinema di Venezia: i film in concorso, red carpet, le star ed i paparazzi, un arcivescovo scomunicato ed una lolita presidenziale. Nella giornata di mercoledì sul tappeto rosso hanno sfilato tra la folla di fotografi, curiosi ed esibizionisti, l'ex monsignor Milingo - immancabilmente accompagnato da signora - e Noemi Letizia. Praticamente un prete scomunicato ed una lolita col permesso dei genitori. Il primo che, smarrita la retta via, pare aver scambiato la fede con la figa, la seconda che dichiara "per me la verginità è un valore"... probabilmente costoso, visto le compagnie. Depravazione ed immoralità sotto i riflettori - le definizioni si intendono perfettamente interscambiabili per i soggetti in questione, fate voi -. I tempi cambiano, è vero, verissimo, fottutamente e dannatamente vero. La morale una pratica onanistica in tempi d'orgia, il buon senso un'esile richiesta di tregua durante un bombardamento atomico. Ci vogliono tutti con la coscienza sporca, tutti con una bella macchia ed un bel profilo facebook per darle una giusta pubblicità. Star del peccato. Arroganti, stupidi, incoscienti e splendenti. Impudenti ed impuniti: Calisto Tanzi è ancora Cavaliere del Lavoro, Lorenzini continua ad aver appesa al petto al medaglia d'ora della Sanità. Il pubblico di forum sceglierebbe ancora Barabba e i tre ladroni proverebbero di tutto per togliere dalla scena Gesù. E nessuno batte ciglio. E intanto scorrono le immagini di Baaria, mentre le rievocazioni del '68 sembrano essere l'unico modo per evocare un certo fervore e livore verso l'attualità. Ieri è già lontano, figuriamoci quarant'anni fa, e poi mio padre è troppo stanco e, da come sprofonda sul divano, sembra anche abbastanza stufo. Se non fosse per qualche sua smorfia di indignazione direi anche indifferente. Di certo più miope. E allora mi chiedo che valenza ha il telecomando se la trasmissione che più emoziona dà dei pacchi.
Non sono tempi adatti agli innocenti. No, non lo sono. E allora mi viene voglia di commettere qualcosa, qualcosa di squallido ed eclatante. Si badi bene che non mi riferisco ad un reato. No, perché quello in quanto tale è ancora collegato - ma solo concettualmente e per poco ancora - alla lesione della proprietà o sottrazione della ricchezza. Mi riferisco a qualcosa che possa semplicemente offendere la dignità di un uomo ormai unto tanto da poter scivolare nei palinsesti televisivi per qualche tempo. Ma poi penso al senso di colpa. Cazzo quanto pesa e quanto tempo porta via il senso di colpa. Purtroppo il cilicio non funziona più. Due o tre vergate e la colpa passa. Eh no! Troppo comodo. Allora penso al fatto che dovrei intraprendere un lungo percorso per liberarmi preventivamente da ogni senso di colpa: compro libri di marketing e managemnt, appendo al muro della mia stanza una bella stampa di Charles Manson e ascolto musica new age. Mi rimpinzo di hamburger da Mc Donalds e vado a fare footing, ma non prima di aver caricato il mio lettore di pezzi di band che tra qualche mese non esisteranno più ed essermi comprato un bel completo sportivo in un ipermercato. Poi torno a casa e, per paura che il confronto con qualcuno mi possa mettere con le spalle al muro, accendere la tv. Spaventarmi se c'è qualcun altro intenzionato a condividere con me il telecomando e correre sempre nello stesso ipermercato ad acquistare un'altra tv, lcd, anzi no, al plasma. Anzi no, con tecnologia led. Una tv enorme, una di quelle che non si misurano in pollici ma in braccia. Ma poi nella mia auto non ci entra. E il trasporto non lo voglio pagare: è un furto. Allora risparmio, risparmio su tutto, non esco, non faccio regali neppure a Natale neppure alla mia ragazza. Non vado in vacanza e lavoro, lavoro e lavoro. Nella pausa mi collego con il mondo naufragando tra le immagini ed i pensieri di facebook e la notte dormo con una sola camomilla. Vendo i miei libri e guardo film masterizzati. Vesto con abiti ormai non più di moda cercando di farmi vedere il meno possibile in giro, sai che oltraggio se non fossi di moda. Poi mi collego ad internet e controllo il mio conto in banca. Mi reco in concessionaria e compro un suv. Ora posso caricare il mega televisore. Non riesco a sintonizzare i canali. Allora ritorno su internet e scarico un manuale, ma non serve, meglio i parerei dei forum. Attivo una decina di account e qualcuno flirta con me. Finalmente riesco a mettere in funzione la tv: forse riesco anche a vedere l'ultima puntata di X Factor. Così ho un argomento. Ho tutto, adesso, compreso le rate di una macchina che non mi serve e quelle di una tv che non ho il tempo di vedere. Ma il senso di colpa sembra sopito dimenticato, eliminato. Allora esco e mi sputtano tutto ciò che mi resta in abiti costosi e porto a lavare la macchina tre volte a settimana. Adesso sono pronto. Adesso sono pronto per commettere il mio gesto eclatante, quello che mi farà salire alla ribalta, quello che farà parlare di me, ma prima devo trovare un box per il suv, parlare con il commercialista, pulire il mio pc dai virus, rassicurare la mia banca, cercare di prendere tempo con l'assicurazione, fare l'amore con la mia ragazza, chiedere un anticipo sullo stipendio, portare a termine i progetti a lavoro, inviare nuove richieste di amicizia, sincronizzare la posta con il mio iphone, copiare tutte le password su di un'agendina, ordinare un cocktail alla frutta, organizzarmi le vacanze con un volo economico, comprare qualcosa su internet, rispedirla perché la taglia è sbagliata, verificare che il nero è ancora di moda, farmi un caffè seduto al tavolino del locale più figo della mia città, installare un allarme satellitare sul suv, comprami un navigatore, scaricare le mappe del Sud America, abbonarmi a Vanity Fair, strafarmi di guarana e vitamine, sfoltirmi le sopracciglia, acquistare un dentifricio sbiancante e prenotare la chiesa per il mio matrimonio tra due anni, pensare alla disposizione dei tavoli, farmi venire voglia di un viaggio in solitaria, in giro per l'Europa per finire solo, davanti un vecchio ed interminabile cantiere, a chiedermi cosa cazzo stiano ancora costruendo da anni. Hmm, cosa dovevo fare?

giovedì 10 settembre 2009

Il giornalismo ai tempi di internet: manifesto dei blogger tedeschi

I 17 PUNTI:

1. "Internet è diverso" Il nuovo mezzo di comunicazione è molto differente rispetto agli altri media. Chi vuol lavorare nel campo dell'informazione deve adattare i propri metodi di lavoro alla realtà tecnologica di oggi invece di ignorare e contestare il mondo multimediale. Bisogna produrre prodotti giornalisti nuovi e migliori.

2. "Internet è un impero mediatico tascabile" Grazie a internet è possibile fare dell'ottimo giornalismo anche senza immensi investimenti. Il web riorganizza le strutture esistenti dei media abbattendendo gli antichi confini che esistevano tra giornali, televisione, radio etc.

3."Internet è la nostra società e la nostra società è internet" Wikipedia, YouTube e i social network sono diventati una parte della vita quotidiana per la maggioranza delle persone nel mondo occidentale. I mezzi di comunicazione, se intendono sopravvivere alla rivoluzione tecnologica contemporanea, devono capire i legittimi interessi dei nuovi utenti e abbracciare le loro forme di comunicazione.

4. "La libertà di internet è inviolabile" Il giornalismo del XXI secolo che comunica digitalmente deve adattarsi all' architettura aperta di Internet. Non è ammissibile che si limiti questa libertà in nome di interessi particolari commerciali o politici, spesso presentati come interessi generali. Bloccare parzialmente l'accesso a internet mette a repentaglio il libero flusso delle informazioni e il diritto fondamentale di informarsi.

5. "Internet è la vittoria dell'informazione" Per la prima volta grazie a Internet l'utente può scegliere realmente come informarsi e attraverso i motori di ricerca attingere a un patrimonio d'informazione immenso.

6. "I cambiamenti apportati da Internet migliorano il giornalismo" Grazie a internet il giornalismo può svolgere un'azione socio-educativa completamente nuova. Ciò significa presentare notizie in continuo cambiamento attraverso un processo inarrestabile. Chi vuol praticare il giornalismo deve essere stimolato da un nuovo idealismo e capire che le risorse offerte da internet sono un incredibile stimolo a migliorare.

7. "La rete richiede collegamenti" La rete è fatta di collegamenti. Chi non li usa si autoesclude dal dibattito sociale e ciò vale anche per i sitiweb dei tradizionali mezzi di comunicazione.

8. "Linkare premia, citare abbellisce" Chi fa giornalismo online deve offrire all'utente un prodotto sempre più completo. Linkare le fonti e citarle permette di conoscere direttamente e più ampiamente i temi di cui si dibatte.

9. "Internet è la nuova sede per il discorso politico" Il giornalismo del XXI secolo deve fare in modo che il dibattito politico si trasferisca sempre di più sulla rete così il pubblico potrà partecipare direttamente ai discorsi politici e dire la sua.

10. "Oggi libertà di stampa significa libertà d'opinione" I giornalisti non devono temere che la rete possa sminuire il loro compito di selezionare le notizie e informare. La vera dicotomia che invece internet realizza è quella tra il buon e cattivo giornalismo.

11. "Sempre di più: le informazioni non sono mai troppe" Sin dall'antichità l'umanità ha capito che più informazioni si hanno più è grande la libertà. Internet è il mezzo che può più di tutti può allargare la nostra libertà.

12. "La tradizione non è un modello di business" Come dimostra già la realtà odierna è possibile fare buon giornalismo su internet e guadagnare denaro. Non bisogna ignorare lo sviluppo tecnologico solo perché secondo alcuni distruggerà le aziende giornalistiche, ma bisogna avere il coraggio di investire e ampliare la piattaforma multimediale.

13. “Il diritto d'autore diventa un dovere civico su Internet” La rete deve rispettare il diritto d'autore, ma anche il sistema del copyright deve adattarsi ai nuovi modelli di distribuzione e non chiudersi nei meccanismi di approvvigionamento del passato.

14. "Internet ha molte valute" Il modo più tradizionale di finanziare i giornali online è attraverso la pubblicità. Altri modi per finanziare i prodotti giornalistici devono esseri testati.

15. “Cio' che rimane sulla rete resta sulla rete” Il giornalismo del XXI secolo non è più qualcosa di transitorio. Grazie alla rete tutto rimane nella memoria degli archivi e dei motori di ricerca e ciò fa in modo che testi, suoni e immagini siano recuperabili e rappresentino fonti di storia contemporanea. Ciò stimola a sviluppare un livello qualitativo sempre migliore.

16. "La qualità resta la più importante delle qualità" Le richieste degli utenti sono sempre maggiori. Perché un utente resti fedele ad un particolare giornale online, quest'ultimo deve garantire qualità e soddisfare le richieste del lettore senza rinunciare ai propri principi.

17. "Tutto per tutti" Internet ha dimostrato che l'utente giornalistico del XXI secolo è esigente e nel caso di un dubbio su un articolo è pronto a studiare la fonte per essere maggiormente informato. I giornalisti del XXI secolo che il lettore cerca non sono quelli che offrono solo risposte, ma quelli che sono disposti a comunicare e a indagare.

Fonte: Corriere della Sera