
Il Corriere della Sera on line di oggi (23 settembre 2009) riporta la notizia che l'"Iran ha bandito i jeans con il nome di Allah", precisando che "Chi ha provato a importarli è stato arrestato con l’accusa di blasfemia". Il modello di jeans in questione riportava il nome del profeta su di una tasca posteriore, all'altezza delle natiche per dirla tutta. Apriti cielo! (espressione che va bene per ogni credo). Il mondo religioso iraniano è subito insorto di fronte alla fashion dissacrazione del nome di dio. Un'insurrezione che ha messo d'accordo sciiti e sunniti, popolazioni che convivono nel territorio con non poche difficoltà. Calzoni messi la bando, indumento vergognoso ed offensivo, dunque, ma anche origine di una reazione tale da unificare - almeno per concetto - fazioni opposte e discordanti. Un miracolo, avranno urlato all'interno dei laboratori stilistici cinesi in cui il jeans è progettato e realizzato. Macchè! Quelli di religione non ne vogliono neppure sentir parlare. E reprimono "diritti" ogni replica. Una situazione simile è accaduta poco più di 30'anni fa in Occidente, in Italia, per la precisione. Correva l'anno del Signore 1971, quando in Piemonte nacque il primo marchio italiano di jeans, Jesus Jeans (prodotto dal Maglificio Calzificio Torinese - MCT). Il nome la dice tutta. Anche in quel caso le polemiche non mancarono. L'Italia, si sa, è un paese mooooolto cattolico, spesso bacchettone, che mal digerisce le provocazioni (scherza coi fanti, ma lascia stare i santi), con una morale di matrice marcatamente religiosa e, specie in quegli anni, colmo di gente che c'andava con i piedi di "piombo". La goccia che fece traboccare il vaso fu la campagna pubblicitaria, ideata dall'enfant prodige Oliviero Toscani, in cui campeggiava in primo piano un sedere ben tornito ed appetitoso che invitava la gente a seguirlo. "Chi mi ama mi segua", recitava, infatti, il biblico slogan. Un invito per "chiavata", piuttosto che per chiamata. Una pubblicità fantastica, che colpisce il pubblico senza lasciare scampo, che fa parlare anche chi un paio di jeans non li ha mai indossati, è ancora di più, fa parlare anche chi non ti aspetti proferisca parola. Un messaggio potente e penetrante, una di quelle cose che non dimentichi facilmente. Certo, c'è chi afferma che la migliore pubblicità è quella che faresti leggere o vedere alla tua famiglia senza vergognarti del contenuto ed immagini, tuttavia questo va bene solo in un mondo perfettamente corretto, sensibile, dai connotati morali ben delineati, identificabili e soprattutto stabili... almeno finchè durano. Ma questa è un'altra storia. Sta di fatto che il paragone tra le due circostanze ci sta tutto, ma si tratta di un confronto solo ideale. Lungi da me voler assimilare i due mondi e le due epoche. Totalmente differenti, ma la storia mi fa gola. L'Iran di oggi bandisce e condanna, l'Italia di trent'anni fa polemizza e si scandalizza. Sempre di dio si sta parlando! Sebbene la vicenda non ebbe nel Bel Paese le medesime proprietà uninifatorie che ha avuto nella nazione degli ayatolla - la critica e l'estabilisment italico mostrarono posizioni opposte e discordanti tra contrari alla pubblicazione dell'immagine pubblicitaria e fautori della libertà di espressione - la fattispecie evidenzia delle discrasie reazionarie da prendere in seria considerazione. Wow, sto trascendendo. Restando con i piedi per terra, mi chiedo: è davvero necessario condannare un jeans? E' possibile che imprimere il nome di Gesù, Allah, Buddah o Visnù su di un pantalone sia da considerarsi manifestazione di una libertà sacrosanta ed inviolabile come quella di espressione? Ci sono limiti al fanatismo? O si vuol solo fare scalpore, infrangere le regole, indispettire, innervosire, fomentare polemiche e censure, irritare, irridere e fare soldi. Be', d'altronde non biasimo nessuno, sapete come sarebbe difficile badare o quantomeno tenere in dovuta considerazione le opinioni ed i pareri di tutti per evitare di urtare la sensibilità di chicchessia? Un'impresa che richiederebbe doti taumaturgiche, divine, e di divino nell'uomo ce n'è tanto quanto di sangue nelle rape.